Miguel Adrover: «Torno nella moda dopo 20 anni con i miei baseball cap» - MilanoFinanza News
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Culture

Miguel Adrover: «Torno nella moda dopo 20 anni con i miei baseball cap»

Come anticipato a MFF-Magazine For Fashion, lo stilista maiorchino, astro del fashion newyorkese dei primi anni 2000, è pronto a sigillare il come-back nell’industria dopo una lunga assenza. I suoi cappellini come firma distintiva saranno disponibili online da sabato 18 maggio

di MARGHERITA MALAGUTI
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Autoritratto «Countryside New Romantics» di Miguel Adrover
Autoritratto «Countryside New Romantics» di Miguel Adrover

Miguel Adrover is (snap) back. «Ricordate quella felpa con i cappellini come imbottiture sulle spalle, con le iniziali MA ricamate con un lettering simile a quello dei New York Yankees? I baseball cap sono un mio trademark e sono pronto a rilanciarli». Così lo stilista maiorchino aveva anticipato a MFF-Magazine For Fashion il suo ritorno nella scena della moda, dopo 20 anni di assenza. Con un pezzo come firma distintiva, i baseball cap che erano stati una pietra miliare del suo marchio, astro della scena newyorkese dei primi anni Duemila. E che saranno di nuovo acquistabili, online sul sito www.ilovemycustomersmigueladrover.com da sabato 18 maggio alle 15:00, ora europea.

Ma c’è di più, tra un documentario in fase di montaggio che coinvolge il Tribeca film festival e l’arte di Miguel Adrover, fotografie come autoritratti e nature morte come afflato creativo dopo l’allontanamento dalla Grande mela, l’industria, il suo brand stella cometa, sorprendente, notevole, innovativo ma senza fondi. Miguel Adrover ha conosciuto tutto, il successo della «new fashion superstar» alla prima sfilata nel 1999, l’ascesa, la fama, le critiche, le coincidenze fortuite per lo più sfortunate, gli show controversi, il finanziatore Pegasus e la sua bancarotta. L’alto, il basso, la cima, il fondo. E ora una vita nella sua Maiorca, dove e` tornato nella casa che lo ha cresciuto e da cui era partito giovanissimo per Londra, oggi nella natura con la famiglia.

Ha sempre fatto tutto senza compromessi. Politico, amante dell’eclettismo interculturale, del repurposing prima del sostenibile come urgenza cool. Con quel Burberry trasformato inside out, back to front, che i creativi qualche volta sognano e citano più o meno dichiaratamente. Chiamatelo ancora pazzo, non se ne risentirebbe. Suggeritegli di scendere a patti, non lo farebbe. «Anyone seen a backer?», ha chiesto 20 anni fa. «Anyone seen a publisher?», chiede ora. Sarebbe bene trovarlo, questa volta. Miguel Adrover ha tanto da dire ed è pronto a farlo.

I suoi autoritratti, le nature morte. Come ha iniziato la pratica fotografica?

Quando mi sono trasferito qui, era un modo per fare qualcosa da solo. Perché la moda ha bisogno di struttura, fondi, business plan. E dopo essere stato direttore creativo dell’azienda ecologica tedesca Hess natur, sono tornato a Maiorca. E io sono ancora il mio lato creativo, mi esprimo con questo chiaroscuro che ricorda Caravaggio, la luce che entra dalla piccola finestra, invitata nell’oscurità. Oltre a self-portrait e still life, uso manichini come soggetti, sono immerso nella solitudine. E mi prendo cura dei miei genitori.

Ci sono ancora i vestiti, se non la moda, nella sua vita?
Nel fare fotografia, non dimentico mai l’abbigliamento, amo il suo potere. Anche lo stile, l’estetica in relazione all’antropologia, al sociale, al tribale, sono interessato ai costumi. E ho sempre amato i tessuti, hanno un loro modo di parlare, lo si vede in Francisco Goya. Li ho usati tantissimo anche per il mio marchio, dal materasso a strisce di mio nonno a quello del mio vicino di casa a New York, Quentin Crisp, trovato per strada dopo che era defunto. Per me l’abbigliamento è qualcosa che ha un’anima, che tengo con me. E ha a che fare con il repurposing. Che non coincide con riciclo, perché è quando prendi un blazer e lo converti in una gonna.

Come le viene l’idea per uno scatto?

A volte è un frutto, inizia con cose piccole, poi cresce. Per gli autoritratti ho bisogno di andare dai vestiti, la sera prima. È un’interconnessione con gli artefatti, gli oggetti.

Parlava di solitudine...
È sottovalutata, vista come negativa, ma penso che ci siano momenti dove è importante che tu sia solo per capire chi sei. Non sono una persona spirituale, odio lo yoga, ho uno spirito punk, la mia immaginazione è selvaggia.

Recentemente ha posato per il marchio Vivienne Westwood...

Lo dovevo a Vivienne. A Londra, da ragazzo, conobbi il suo negozio World’s end in King’s road. Quando ho aperto quella porta ho trovato un posto che mi corrispondeva. Venivo da un paese piccolo a cui non appartenevo ed ero appassionato di musica, erano i tempi dei Bow wow wow e di Adam and the ants. In più, era un’attivista.

A Londra, un suo amico era Alexander McQueen...

Dalla prima volta che ci siamo visti, Lee e io ci siamo connessi, era come se due animali selvaggi si fossero riconosciuti. Era qui quando ha ricevuto la telefonata per Givenchy, abbiamo fatto una grande festa. Veniva spesso anche a New York, nel nostro basement. Lo conoscevo da prima della ricchezza, delle iper-responsabilità con i gruppi del lusso. Condividevamo ricerca e consigli. Lo sento ancora presente. Lee era sensibile, timido, un hooligan con un cuore grande. Molti avevano come paura di lui, ma io no, per questo gli piacevo, anche se negli ultimi anni ci avevano allontanati, malintesi.

Lei, McQueen, ma anche Bernadette corporation, Bless, Bruce. Un’ondata creativa che criticava l’industria sfidandola dall’interno?
È necessario conoscere il nemico per distruggerlo. Ho avuto un negozio a New York (Horn, nei 90s, ndr), vendevamo Bc, Susan Cianciolo, McQueen. Ricordo gli show di Lee, mozzafiato, brividi, era come se custodissimo un segreto. E correvamo rischi.

Cosa ricorda di quell’energia?

Veniva fuori dalla difficoltà, nel mio caso. Ho fatto le due prime collezioni prendendo stoffe e vestiti dai cassonetti di New York. La nostra necessità è diventata creatività. Quando non si hanno le cose bisogna sviluppare nuove tecniche e si finisce per fare qualcosa che una fabbrica non può fare, a mano. Ricordo di aver legato alla mia bicicletta due cappotti ed essere andato in giro per Chinatown quando pioveva. È il tipo di cose che ho fatto per il mio primo show, Manaus-Chiapas-Nyc (nel 1999). E succedono quando hai un team che ci crede, parlavo già al plurale, mi sono sempre considerato parte di una tribù.

Ora che fotografia farebbe del mondo della moda?

Ci sono i magnati e i loro conglomerati, hanno il controllo su tutti i giovani creativi del mondo, nessuno può competere. Si assicurano i team migliori e i billboard più grandi.

Ma la sua prospettiva, il modo in cui guarda l’industria sono cambiati in base al suo percorso nella moda...

Mantengo la mia autenticità, l’indipendenza. Sono quasi 20 anni che non vendo nulla, uno può dire: «Sei pazzo». Forse avrebbe ragione, ma c’è quel qualcosa che non e` mai stato in vendita ed e` la mia anima.
La sua anima non era in vendita nemmeno quando faceva collezioni...
Il mio guardaroba era in vendita per rappresentare quelle persone che non avevano una piattaforma, abbracciando la coscienza ecologica e sociale. Oggi tutti ne parlano, ma non 25 anni fa. Ero considerato un veleno perché stavo portando questioni di cui nessuno voleva parlare. Le Nazioni unite, la guerra in Iraq. E ora, con la guerra, non c’è nessuno che lancia un messaggio. L’unico è stato quello di pace di Adrian Appiolaza da Moschino.

Le guerre, il cambiamento climatico...
La moda è uno dei più grandi microfoni del pianeta Terra. Ma come è possibile che abbia un tale privilegio da potersi scollegare dalla realtà? E devo dire un’altra cosa, molta dell’immaginazione e della creatività, mie e dei miei amici, oggi è nelle passerelle, ma non è lì con lo scopo di cambiare qualcosa, è lì solo per l'estetica.
Le passerelle però devono dialogare con il presente, altrimenti...
Non sono più rilevanti. Alle ultime fashion week di Parigi, Londra e New York non c’è stato un «cessate il fuoco». In questo senso, mi piacerebbe fare una sfilata di moda, oggi.
E quindi è per il fatturato che non si corrono più rischi?
Sul mio Instagram (dove pubblica i suoi lavori fotografici, ndr) non riesco a chiudere occhi, orecchie e bocca di fronte alla realtà. Qualcuno mi dice: «Perché rischi?». Ma perché ti interessa avere follower se non puoi parlare? Oggi, tutto deve essere di intrattenimento. È come se non si creasse uno spazio per qualcuno o qualcosa reale.
Forse il suo lavoro risuona ancora perché affrontava problemi sociali e ambientali che sono rimasti, come l’immigrazione, le classi, l’ecologia?
Sono più grandi perché non sono stati risolti, al contrario, sono stati commercializzati. Si fanno T-shirt ecologiche, una campagna, ma il resto della collezione non è importante. Ma arriveremo a un punto che questo non sarà più sostenibile e sarebbe triste se le persone se ne uscissero come sorprese, chiedendosi da dove viene il problema.
Non si sente affaticato di continuare a portare il peso di questi temi importanti sulle sue spalle?
A volte mi dico: «Miguel, hai 58 anni, dimenticati di tutto e goditi la vita». Ma non posso.

Lei porta ancora un messaggio negli scatti?
Cerco in qualche modo di farlo quando mi autoritraggo in connessione con le piante, i fiori. È più poetico, direi, perché le urla e tutto il resto li lascio ai più giovani, sono esausto.

E per la moda, c’è possibilità di cambiare?

Per come si sta proclamando, no. Ma può sempre trasformarsi in qualcosa di folle, selvaggio. Non intorno al denaro, ma allo spirito del movimento punk. Quando gli eventi trasformano le vite, le risorse finiscono, l'abbigliamento e il costume hanno un enorme potere, ma non in relazione ai marchi.

Tornando al presente e ai messaggi in passerella, qualcuno qualcosa ha detto, il debutto da Moschino di Appiolaza, che lavorò con lei a New York...
Una persona fantastica e creativa. L’ho visto qualche anno fa a Parigi, quando ho esposto i miei lavori alla Galerie balice hertling. Ci siamo sentiti quando ha lasciato Loewe, avevamo pensato di fare qualcosa insieme. E poi ho saputo di Moschino, sono davvero felice.

Assieme a lei, avrà imparato come portare questioni controverse, anche culturali e politiche. Lo faceva anche Franco Moschino...

Quando ero a New York, mi avevano offerto il ruolo di direttore creativo di Moschino. Ammiravo ciò che aveva fatto Franco Moschino, ma dissi di no, avevo il mio marchio.

A proposito di umorismo, molti ricordano la tee «Anyone seen a backer?» con cui lei uscì a fine show spring-summer 2005...

Per me tutto e` sempre stato all’insegna dell’umorismo, fa passare meglio il messaggio. E quando ho saputo di Adrian da Moschino, ho pensato che fosse un’ottima scelta, so che sarà molto coraggioso.
Appiolaza ha già detto che vuole lavorare sulla provocazione...

E sapete perché lo farà? Perché è stato con Miguel Adrover, questo rimane con te per sempre (ride, ndr).
E se Appiolaza la chiamasse per quel famoso «qualcosa» insieme?
Why not? Sono orgoglioso di lui, riporterà Moschino a quello che era.

Parlando dei suoi progetti...

Abbiamo appena finito di girare un documentario su di me, sulla fotografia e sui miei giorni nell'industria della moda, c’entra il Tribeca film festival di New York. In questo momento e` in fase di montaggio.
Sembra che ci sia qualcos’altro...

Una pagina web in cui vendere i baseball cap di Miguel Adrover. Ricordate quella felpa con i cappellini come imbottiture sulle spalle, con le iniziali MA ricamate con un lettering simile a quello dei New York Yankees? I baseball cap sono un mio trademark.
E poi?

Qualcosa di grande, out of control, è tutto pronto. In piu`... Anyone seen a publisher for photography books out there?
Il suo sogno?
Cessate il fuoco, non posso essere egoista. Vivere in pace con la nostra madre Terra e vivere in pace tra di noi. (riproduzione riservata)


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Orario di pubblicazione: 17/05/2024 10:25
Ultimo aggiornamento: 17/05/2024 11:26
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