Liguria, il ripristino delle regole - la Repubblica

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Liguria, il ripristino delle regole

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Si potrà mai discutere in Italia di questione morale (e del rapporto tra imprese e politica) a prescindere dagli aspetti penali? Con il caso Toti-Spinelli torna impellente una questione semplice ma di lunga durata nella storia politica italiana, cioè il prevalere degli interessi privati su quelli pubblici attraverso il peso della ricchezza, questione riproposta ieri su questo giornale da Francesco Bei. Intanto, bisognerebbe cambiare nome alle donazioni: non conosco nessun operatore economico che finanzi qualcuno senza aspettarsi qualcosa. La generosità non è parola da evocare nelle relazioni tra chi ha potere politico e chi ha i soldi per condizionarlo. Insomma, quello di Toti lo si può mai ritenere un comportamento dignitoso e onorabile per un uomo delle istituzioni al di là delle sue responsabilità penali? E quello di Spinelli (e compagnia) lo si può definire un comportamento consono per chi ritiene la competizione di mercato una regola aurea del fare impresa? Si tratta, infatti, di un caso emblematico in cui politica ed economia danno vita insieme a “un’impresa di ventura”, con il mercato alterato dalla protezione politica e il consenso politico condizionato dal flusso di benefici ricevuti dalle imprese. Insomma, una politica non vincolata dalle leggi dello Stato, una imprenditoria non regolata dalla competizione di mercato.

Che siano penalmente perseguibili i comportamenti che sono scaturiti da questa meschinizzazione dei poteri pubblici e privati, è questione non dirimente ai fini del tentativo di capire la sostanza di ciò che si decideva sullo Yacht in mezzo al mare. Toti è un “condottiero” e Spinelli procura i soldi per il suo esercito politico. Ma Spinelli è allo stesso tempo un condottiero spregiudicato della sua impresa (che mette al di sopra di qualsiasi idea di bene pubblico) e Toti gli procura le opportunità per rafforzarla. Sono entrambi “capitani” di ventura che conquistano una postazione piena di risorse e di opportunità e ne fanno il loro protettorato in attesa di conquistare altro, una specie di pirateria politica, se ci si passa il termine visto il riferimento alle attività portuali. Entrambi, politico e imprenditore, concepiscono la lotta per affermarsi come forza, come intrigo, come alleanze che continuamente si disfanno, e che presuppone l’obbedienza cieca degli apparati. In questa logica è considerato potente non chi applica la legge ma chi l’aggira. Il potere autentico, quello che suscita ammirazione, non si fa intimidire dal rischio di aggirare le leggi. Il limite vero di un politico e di un imprenditore consiste nel non volerlo (o non saperlo) fare. Si è affermata, in tanti settori e in tante regioni, una concezione guerriera e mercenaria della politica e dell’economia. Senza dignità e onore.

Dante avrebbe scritto “e ‘l modo ancor m’offende”. Infatti, il comportamento del duo Toti-Spinelli non è un incidente, non è un’eccezione ma quasi una normale modalità di rapportarsi tra decisori politici e operatori economici nell’epoca del regionalismo dominante e dell’abbandono di una parte degli imprenditori delle leggi del mercato. Lo abbiamo già visto nella sanità in Lombardia (condanna di Formigoni), nella più imponente opera pubblica degli ultimi decenni (il M.o.s.e. di Venezia) con la condanna di Galan, ex presidente del Veneto, e oggi con Toti in Liguria nel sistema portuale. Gli imprenditori corteggiano i nuovi padroni delle regioni e i “governatori” si fanno corteggiare e a loro volta corteggiano. Le istituzioni regionali, in molti casi, si sono trasformate in corti negozianti (e, nel caso della Liguria, galleggianti). Ma non è sempre chiaro chi è il padrone e chi il vassallo. E non siamo ancora (per fortuna) in regime di autonomia differenziata! Insomma, le regioni sono oggi il terreno istituzionale in cui si esplorano le forme nuove dell’antica corruzione. E lo sgretolamento della democrazia dei partiti porta con sé l’abolizione di qualsiasi autogiustificazione sul prendere soldi per entità collettive (quali i partiti di un tempo): oggi si chiedono e si accettano soldi quasi esclusivamente per la propria avventura in politica. O, meglio, per il proprio clan organizzato. Infatti, andrebbe usata la definizione di Fabio Armao: è questa l’età dell’oikocrazia (titolo di un suo acuto saggio), cioè l’età del dominio dei clan personali (familiari e di accoliti fedelissimi) sulla politica e sull’economia. E quando la politica e l’economia si trasformano in clan, le mafie prima o poi vi fanno ingresso trionfale. Cosa fare di fronte all’eterno ritorno del condizionamento dei soldi sulle decisioni politiche che riguardano le imprese? Intanto, sarebbe utile concentrarsi su questo tema da parte del mondo politico e imprenditoriale, lasciando perdere il garantismo giustificazionista. E se un dibattito serio si aprirà, non si potrà che partire da due ovvie premesse. Il fatto che la corruzione accompagni permanentemente le decisioni politiche che hanno a che fare con il mercato delle opere pubbliche e delle autorizzazioni, non può portarci a fermare ogni opera pubblica per impedire la corruzione, ma a ripristinare regole che rispettino le leggi dello Stato e del mercato. Il non fare è il gemello impotente della corruzione. Ma non si può ignorare che chi dà soldi prima o poi in cambio chieda di fare più soldi attraverso le decisioni politico/amministrative. Tra questi due estremi una soluzione bisogna cercarla.

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