Esiste ancora la tragedia? Qual è la vera essenza dell'evento tragico?

Esiste ancora la tragedia?

Riflettevo su alcuni passaggi che Karl Jaspers ha riportato nel suo saggio “Del tragico” ricollegandoli alla tragedia del tifone Haiyan che nel 2013 ha devastato una regione già di per sè molto povera. La domanda che mi sono posto è: si può veramente parlare di tragedia? O forse l’uso di questo termine nella cultura contemporanea è svanito nel suo significato più comune di disgrazia?

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Certamente non si può negare che esistano spettatori “passivi” così come accadeva nelle rappresentazioni dell’antica Grecia, ma, per la pace di Aristotele, possiamo parlare di “catarsi”, ovvero di quell’effetto profondo che la scena induce in chi la osserva quasi come se fosse il protagonista? Io ne dubito. Oggi va di moda il concetto di “empatia” che, in fin dei conti, è una forma di sim-patia così deperita nella sua intrinseca forza, da essere limitata all’induzione di qualche banale commento di com-passione.

Ma neanche la compassione è realmente viva. L’uomo vede i servizi televisivi e, forse inorridendo, si passa una mano sulla fronte e ripete a se stesso: “Meno male che non è capitato a me!”, ovvero sancisce (in-)consciamente che il dramma è sempre altrui e il conoscerlo, il vederne gli effetti lo riguarda meno che ascoltare le angoscianti storie dei malati senza via di scampo. Dunque la catarsi, quello stato di profonda auto-riflessione che si basa sulla condivisione della scena, sull’immedesimazione totale con il protagonista, sia esso l’eroe vincente o, come spesso nel caso delle tragedie, quello che vive sino in fondo, attivamente, la sua distruzione, è solo un concetto filosofico che la cultura ha trasferito agli archivi.

Immagine satellitare del tragico tifone Haiyan. Il vortice si muove verso la terraferma portando con sè l'essenza della tragedia.
Immagine satellitare del tifone Haiyan (2013).

E, concordando perfettamente con quanto afferma Jaspers, non si può neanche parlare di tragedia di fronte ad una supina accettazione degli eventi: quella è pura arrendevolezza, cessione del proprio essere uomo (in lotta, in rivolta, alla ricerca del vero) ad una forza superiore che lo satura completamente. La tragedia nasce infatti proprio quando la “polarità” tra ciò che si è e ciò che si vede come potenziale irragiungibile (la divinità, la natura) mette l’uomo di fronte alla contingenza e lo costringe alla consapevolezza nella scelta, sia essa di fuga (inevitabilmente fallace), che di lotta, seppur quest’ultima è destinata a guidare l’eroe verso la morte.

La catarsi degli spettatori non è dissimile dalla sorte del protagonista: seppur essi non sono direttamente colpiti, in realtà, come in preda ad un apparente paradosso, essi lo sono. Vedono nella tragedia il celebrarsi di uno stato che trascende il particolare per insinuarsi con forza e vigore nell’universale. Potremmo dire, attualizzando il discorso, che Haiyan non ha solo ucciso diecimila filippini, ma l’intera umanità, che si scopre inerme di fronte alla sua capacità scientifica che prevede ma non evita, proprio come Edipo che, conoscendo la verità e la sua buona fede, non può che sottoporsi alla pena, perchè la tragedia, prima d’ogni altra cosa, è umana, ovvero dualmente dispiegata tra il limite e il suo continuo tentativo (irragiungibile) di superamento.


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