La vera storia dell’uomo con tre gambe, da scherzo di natura a “u meravigghiusu” - La Stampa

Recensione di ilario lombardo

La vera storia dell’uomo con tre gambe, da scherzo di natura a “u meravigghiusu”

Giuffré ricostruisce la biografia di Frank Lentini, dalla Sicilia agli Usa

C’è stato un tempo in cui negli Stati Uniti il Re non era Elvis, ma Frank Lentini, nato a Rosolini, in Sicilia, nel 1889, con tre gambe, quattro piedi, sedici dita, e due peni. «Ma che vuol dire “facendo esibire”? Francesco nenti sape fare». «Proprio questo è il bello. Ci basta stare fermo e farsi ammirare». Come il colonnello Tom Parker per il ragazzo di Memphis, anche nella vita di Francesco Lentini entra qualcuno che quella vita pensa di poterla trasformare in mito, e in una macchina da soldi, tanti soldi. È Vincenzo Magnano: più che un manager è un furbacchione, uomo di spettacolo, metà amico metà carogna, un seduttore nato che sta portando in giro per la Sicilia il suo spettacolo di pupi, quando viene a sapere del «mostro». Il giorno dopo si fionda a Rosolini, bussa alla porta dei Lentini, e con poche parole tratteggia il sogno di quel luogo lontano, dove tutto l’impossibile diventa possibile, dove un ragazzino di una sperduta campagna siciliana di fine Ottocento, respinto come uno scherzo della natura, può diventare una star: l’America.

È anche questo, tra le tante cose, Storia incredibile dell’uomo con tre gambe, di Alberto Giuffrè (minimum fax): è il romanzo di un Paese che è la frontiera tra la realtà e l’immaginazione, che resta in equilibrio permanente sulle proprie contraddizioni di terra di emigranti, diversi, reietti e salvatori. «Qui lo sfottono gratis, lì lo coprono d’oro». Quale migliore definizione dell’americanissimo showbiz?

Così il mostro diventa “u meravigghiusu” e poi definitivamente “il meraviglioso Fraaaaaank Lentini, l’unico essere umano con tre gambe”. È una storia vera, che di incredibile ha innanzitutto che nessuno l’abbia mai raccontata prima d’ora. Lo fa Giuffrè, in un romanzo che è costruito come un diario con dialoghi su cui l’autore esercita la sua doppia identità di giornalista e siciliano. La mescolanza del parlato dialettale che vira su toni spesso comici, o di grande tenerezza, rivela nel linguaggio la compartecipazione emotiva all’incanto di un’esistenza che ha accettato la finzione, la morbosità, il voyeurismo, lo stupore, l’orrore e il riso della platea, come specchio e strumento di salvezza. «Pare una cosa strana», dice a un certo punto Frank con lo sguardo e il sorriso di chi è cresciuto sotto il giudizio di un particolare tribunale della normalità, «ma figuriamoci se proprio io ho qualcosa contro le cose strane».

È un gioco, in fondo. Mettersi in mostra e campare. Ripetere sempre lo stesso sketch. «Lavoro nel mondo dello spettacolo. Mi diverto. Ogni volta che sono in giro cerco di prendere a morsi quei bricioli d’infanzia che mi sono perso negli anni». Il montaggio del racconto procede dalla fine, dalla morte improvvisa di Frank nel settembre del 1966, e rivela anche il raffinato lavoro di archivio – musicale e testuale - che c’è dietro (non perdetevi «una specie di bibliografia», nelle pagine finali). Le fiere, gli impresari, il circo Barnum, fino al Madison Square Garden, mentre la vita scorre – quella sì – normale, con figli, matrimoni, fughe e frustrazioni. Frank è il Re dei freak, quando i freak erano spettacoli ricercatissimi, fonte di ribrezzo collettivo e di guadagno. Ma lui sa come fare, ha l’animo di chi ha imparato: «Tranquilla», dice alla moglie Theresa, «Lo sai come funziona. Storie truci, dettagli morbosi. Pensano che a tutti facciano piacere. È la gente del circo…».

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