The Invasion, di Sergei Loznitsa

Il cineasta di Maidan ha ripreso per due anni la quotidianità del suo Paese sotto attacco russo, applicando l’abituale struttura del suo apparato a simmetrie interne. CANNES77. Séances Spéciales

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Come nelle strisce dei Peanuts, le voci degli “adulti” in questo nuovo documentario di Loznitsa restano a lungo tempo, o completamente, degli acusmi senza volto, ne ascoltiamo le litanie e i discorsi riecheggiare per le stanze o per la città ma queste figure, queste Istituzioni, queste immagini del potere, sono destinate a non entrare mai nel quadro, o semmai ad apparire solo dopo molto tempo: accade alle voci dei sacerdoti che officiano funerali e cerimonie, alla voce delle maestre che indottrinano i giovani alunni a riconoscere il nemico, alla voce di Zelensky che tiene discorsi in piazza, alla voce degli annunci di raid aereo o bombardamento in arrivo – The invasion viene ufficialmente presentato come il seguito ideale di Maidan, il film che fece conoscere il “metodo Loznitsa” nell’ambiente internazionale, ed è il risultato di due anni di riprese in giro per l’Ucraina, terra madre del regista, per raccontare il paese sotto invasione russa.
Loznitsa scansiona funzioni religiose, addestramenti militari, manifestazioni di piazza di orgoglio nazionale, ma anche la quotidianità surreale di città sotto attacco che provano a mantenere intatti i propri rituali di “civiltà” anche se in altri quartieri, altre zone, le facciate di interi palazzi bombardati sono ridotte a macerie a vista – e quindi librerie in funzione, giri turistici con guide in bicicletta mentre riecheggiano le esplosioni, lezioni scolastiche che proseguono al riparo dentro rifugi sotterranei: accennavamo sopra alla questione del lato sonoro del film proprio perché in alcuni momenti sembra rinnovarsi lo straniamento dello straordinario Occupied City di Steve McQueen, in cui la traccia audio pareva negare sistematicamente quanto raccontava l’apparente, placido anonimato delle immagini.

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Da Maidan ad oggi, però, ci siamo un po’ abituati alla maniera panottica di Loznitsa di dettare i confini degli spazi che riprende (da Austerlitz a Victory Day), e anche un po’ alla sua passione per i funerali: al netto di alcune concessioni di amore patriottico all’abituale, calibratissimo rigore del montaggio, va segnalata ancora una volta la capacità di tracciare simmetrie interne tra le situazioni ritratte, come delle vere e proprie rime nella struttura del racconto – e così alle sequenze nei bookshop fanno seguito le riprese delle centinaia di libri di letteratura russa o considerata filorussa mandati al macero tramite un procedimento di distruzione automatizzato; alle inquadrature sulle abitazioni distrutte “risponde” il lungo frammento in cui un’anziana donna va ricostruendo un muretto mattone dopo mattone, con le sue stesse mani, e così via.
Ecco, nella maniera in cui la popolazione ucraina sembra aver annesso la guerra all’orizzonte della propria vita di tutti i giorni (un gruppo di battezzanti al mare continua tranquillamente a restare nelle vicinanze dell’acqua nonostante stia suonando la sirena d’allarme e il messaggio della speaker invita a raggiungere il bunker più vicino) si rinnova quella sensazione, presente in tutta la comunicazione sull’invasione sin dai primi giorni, e che già registravamo nel meraviglioso Reflection di Valentyn Vasyanovych come anche nel recente Turn in the wound di Abel Ferrara, di un conflitto, quello russo-ucraino, che rimane costantemente nella dimensione dell’eco, si svolge sempre da qualche altra parte indefinita, sembra puntualmente dietro l’angolo e poi rimane ad aleggiare, come una guerra fantasma, un allarme continuo e sottotraccia, un tempo di guerra perenne e insieme sempre sul punto di avverarsi davvero.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4
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