Tra Bruno e Vico: un viaggio nella metafisica italiana meridionale
“Giordano Bruno Giambattista Vico e la filosofia meridionale”, edito per Editoriale Scientifica, rappresenta il tentativo di Biagio de Giovanni di aprire una finestra – passando per Giordano Bruno e Giambattista Vico – sul pensiero metafisico italiano meridionale. L’autore si cimenta così nel dipingere un quadro seducente e dall’estetica mutevole. Un affresco variopinto in grado di rappresentare incertezze, alternative e potenzialità drammatica insite nella filosofia speculativa dell’Italia meridionale.
Ma in cosa consiste il pensiero meridionale italiano? Una fuga dalla realtà per rifugiarsi nell’eternità? Oppure, unire, invece, questi due mondi: finito e infinito. Suggellare un matrimonio solido che consolidi i caratteri di una vita civile finalmente rinnovata. Lontano dalle logiche corruttive e clientelari del potere, più vicini, forse, a una comune consapevolezza del proprio destino collettivo. Quel che è certo è che il libro è in grado di farci riscoprire un pluralismo di temi e tensioni teoriche inaspettate della filosofia italiana meridionale del ‘500-‘700.
Il quadro è di certo frammentato, ma non potrebbe essere altrimenti. D’altronde, Biagio de Giovanni nel suo libro si ondeggia nel complesso rompicapo del pensiero di Giordano Bruno e Giambattista Vico. Il primo è padre di un pensiero cosmico che va verso l’infinito, il secondo è autore di un pensiero storico che va verso l’eterno. Il mago ermetico gira l’Europa, il cagionevole Tisicuzzus (Vico) si radica nella sua Napoli. Il primo è un feroce anticristiano, il secondo spera nella Provvidenza. A distanza di un secolo l’uno dall’altro, da Nola a Napoli, ecco che le coordinate spazio-temporali che segnano il bivio decisivo in cui si divarica il pensiero al crocevia della modernità.
Il mago ermetico sonda le vertiginose latitudini di un cosmo infinito. In antitesi alla tradizione scolastico-aristotelica, il cosmo viene da lui chiamato Materia-Vita infinita. È così che il filosofo di Nola muove il primo passo verso il decentramento cosmologico-esistenziale del sapiens. Si prende gioco della Rivelazione, è feroce verso la religione cattolica, protestante e luterana; come non bastasse, pensa che i calvinisti siano una setta da sterminare. Resta per tutta la vita convinto che nelle cose abiti il loro opposto, nella luce l’ombra, nella gioia la tristezza. La sapienza è figlia di un “eroico furore”, si agguanta nella passione, nel ricongiungimento emotivo e razionale insieme con la Natura che diviene illimitatamente e infinitamente.
Vico non si perde nell’infinità cosmo. Se è vero che tutto ciò che è perdura per sempre, è altrettanto un dato, sostiene il pensatore napoletano, che tutto ciò che vive è destinato a morire. L’essere è eterno, il vivente è morente. La nostra storia di viventi è dentro una storia dell’essere; una storia “ideal eterna“, appunto, che si contrappone ad una storia (la nostra) “che corre in tempo“. Pur essendo cristiano, Vico non si interessa della Creazione, nè tantomeno del mistero della Rivelazione. Le cause prime del mondo sono oggetto di fede. Vico, invece, è incuriosito da ciò che succede dopo la Creazione: il corso della storia. Vico non cerca la verità divina, vuole ricostruire, a partire dai frammenti di verità che ci sono concessi una teologia civile.
Eppure, ci fa notare Biagio de Giovanni, i due filosofi meridionali, più che due sintonie opposte, sembrano per certi versi disegnare assonanze e sinfonie polifoniche. Entrambi sono profeti che vivono la solitudine. Entrambi, più che spiegare le loro riflessioni, amano raccontarle tramite linguaggi innovativi, immaginifici, inquietanti, scandalosi e originali. Entrambi vivono un contrasto con la propria epoca. Quella di un’Europa “misera e infelice” vittima di leggi assurde, martoriata dalle guerre di religione, segnata da una cultura stantia protetta da grammatici e pedanti a vuoto. Entrambi parlano il linguaggio dei contrari: finito e infinito, tempo ed eterno.
Da questa duplice dialettica emergono due diverse matrici dell’Età Moderna. Il bivio tra il pensiero dell’eterno e quello dell’infinito. Il primo risplende della luce teologica e metafisica. Il secondo, invece, è un pensiero di matrice tipicamente rinascimentale, un’epoca tutt’altro che limpida e concisa, come ha sempre sostenuto Burckard, anzi, inquietante, profondamente consapevole della tragicità dell’esistenza umana. Un’epoca dilaniata dalla scoperta del Nuovo Mondo, divorata da nuove incertezze, nuovi popoli e mondi potenzialmente infiniti. Non più al centro del mondo, il rinascimentale è un individuo travolto dall’infinito che genera sgomento cosmico, orrore, brivido, vuoto e infine abbandono, naufragio senza grazia.
Si aprono, così, gli abissi del Moderno, le sue contraddizioni interne e i suoi paradossi. La filosofia meridionale, da Bruno e Vico, fino a Croce e a Gentile, è dotata della sensibilità per coglierli, in tesa dialettica – e spesso in contrasto – con il pensiero europeo. Filosofia e vita sono civile vissute con piena coscienza dell’intensità della relazione che le lega. “L’uomo è misura di tutte le cose” diceva Protagora, non perché la verità sia necessariamente soggettiva. Ma perché il sapiens per sopravvivere ha costitutivamente bisogno di dare al mondo una misura scientifico-metafisica (lògos) e a sé stesso una misura d’azione etica (virtù). La minaccia alla sua misurata finitudine è l’apeiron, l’infinito informe e smisurato che i greci tanto temevano. Forse è per questo che il matematico Paolo Zellini afferma che “non c’è nulla di più pericoloso della perdita del limite e della misura”.
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