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sinistra

Un oggetto di speculazione storiografica: le Brigate rosse

di Eros Barone

Image99762.jpg1. Una tesi che piace alla borghesia “di sinistra”

È vero che, come diceva Marc Bloch, “lo storico è come l’orco delle favole, va là dove sente odore di carne umana”, ma Sergio Luzzatto, a furia di scrivere biografie (fra queste quella del “Corpo del Duce” relativa alla sorte del cadavere di Mussolini, quella della “Mummia della repubblica” relativa alla sorte del cadavere di Giuseppe Mazzini, nonché quella di Padre Pio anch’essa incentrata sulla corporeità del santo); a furia di scrivere biografie, dicevo, si è talmente ingozzato di quel cibo da farne indigestione.

Il risultato è un tomo di 700 pagine, del quale, tenuto conto dei puntuali rilievi mossi da vari critici alla base documentale e testimoniale della ricostruzione e alla rielaborazione spesso romanzesca, fuorviante quando non fallace, cui quella base mette capo, il meno che si possa dire è, secondo un famoso adagio degli antichi, che “mega biblíon mega kakón” (un grosso libro è un grande male). In effetti, la tesi sostenuta dall’autore – essere state le Brigate rosse un prodotto confezionato da alcuni professori universitari di via Balbi (rione di Genova dove si trovano le sedi delle facoltà umanistiche) - è una mezza verità, che può piacere a quella frazione della borghesia intellettuale cui piace flirtare con i rivoluzionari, ma l’altra mezza verità, quella che qualitativamente è decisiva per l’interpretazione della genesi della lotta armata in Italia, ci dice che le radici più profonde delle Br vanno ricercate in una certa composizione di classe operaia e popolare, quindi non ad Albaro, quartiere residenziale alto-borghese di Genova, o in via Balbi o a San Martino, quartiere quest’ultimo dove si trovano le facoltà scientifiche, ma, oltre che a Oregina, a San Teodoro e nel Centro Storico, nel Ponente industriale, nella Valpolcevera delle grandi e piccole aziende, fra Sampierdarena, Cornigliano e Campi, quartieri schiettamente proletari.

Se l’autore di “Dolore e furore” (titolo programmaticamente romanzesco desunto da un’endiadi di provenienza rossandiana) proverà a ispezionare questi luoghi della Genova proletaria e industriale avrà modo di notare il grande numero di gabbiani che si affollano sul greto del torrente Polcevera e si nutrono di scarti. Ebbene, ricordando anche l’impietosa stroncatura fatta da un eminente critico e storico della letteratura, quale è stato Alberto Asor Rosa, di un “Atlante letterario” curato da Luzzatto in veste di factotum per la casa editrice Einaudi, il paragone che mi è venuto in mente è proprio quello con i netturbini alati e palmati.

Per esprimerci in termini non metaforici, io ritengo che, socialmente e ideologicamente, il Luzzatto sia un intellettuale borghese della “zona grigia”, la cui appartenenza ad una sezione dominata della classe dominante (per dirla con il sociologo Pierre Bourdieu, cui si deve questa esatta definizione del ceto intellettuale) fa di lui il classico prototipo di chi è amico del nemico (la classe or ora indicata) e nemico dell’amico (la classe di cui si finge “compagno di strada”).

 

2. Una clamorosa omissione: la “banda Cavallero”

Da questo punto di vista, non sorprende, anzi è del tutto coerente, sul terreno squisitamente storico della ricostruzione della genesi della lotta armata, la clamorosa omissione, in cui è incorso Luzzatto, di quel precedente altamente significativo in rapporto a tale genesi che è rappresentato dalla vicenda della “banda Cavallero”: un’omissione talmente singolare che si sarebbe tentati di attribuirla all’ottica sostanzialmente perbenistica e ideologicamente subalterna che impronta il libro dello storico genovese.

Il 25 settembre 1967 le vie di Milano furono infatti teatro di una sanguinosa sparatoria tra un gruppo di rapinatori che, dopo aver dato l’assalto a due banche, stavano fuggendo a bordo di un’automobile, e le volanti della polizia che li inseguivano. Al termine di quella folle corsa durata quasi un’ora, corsa che si era snodata attraverso le vie della città coprendo una distanza di dodici chilometri, vi furono quattro morti e quattordici feriti tra i passanti e otto feriti tra le forze dell’ordine. Aveva così termine, con un furibondo conflitto a fuoco e l’arresto di tutto il gruppo nei giorni successivi, l’attività della “banda Cavallero”, che aveva operato tra Milano e Torino mettendo a segno i suoi colpi per quasi nove anni. I suoi componenti rispondevano ai nomi di Piero Cavallero, Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, Donato Lopez e Danilo Crepaldi. Il processo si concluse con la condanna all’ergastolo dei tre principali imputati e pene minori per gli altri due coimputati. Prima del processo, su questo clamoroso episodio di apparente cronaca nera non mancò neanche un film, Banditi a Milano, realizzato dal regista Carlo Lizzani, che dètte il suo virtuoso contributo alla ‘mostrificazione’ della “banda Cavallero”.

Ma l’aspetto più sorprendente della vicenda, quello che contribuisce, come si è detto, a spiegare il “lapsus memoriae” di Luzzatto, fu quello che si ebbe nel corso delle udienze del processo, poiché gl’imputati, più che a discolparsi dei reati commessi, puntarono a rivendicarne le finalità ideali, appellandosi alla prospettiva di una rivoluzione proletaria per finanziare la quale ritenevano necessario dare l’assalto alle banche, emblematici “santuari del capitale”. Così, in coerenza con tale motivazione, quando i giudici dettero lettura della sentenza, i tre principali componenti della banda Cavallero si alzarono in piedi e, levando il pugno chiuso, intonarono “Avanti, siam ribelli”, celebre ‘refrain’ dello storico canto di protesta intitolato “Figli dell’officina”.

Del resto, la “banda Cavallero”, se da un lato evocava, insieme con la tesi politica della “Resistenza tradita” e con il mito romantico del bandito che insorge contro la società dei padroni, le esperienze reali vissute da coloro che, finita la Resistenza e il momento epico della lotta partigiana, non erano riusciti a reinserirsi nella vita normale – esperienze come quelle raccontate da Fenoglio nel romanzo “La paga del sabato” -, rispecchiava anche, da un altro lato, quella composizione di classe operaia e proletaria che, nel volgere di un breve lasso di tempo, avrebbe trovato, almeno in parte, la sua espressione politica e militare nel modello della lotta armata metropolitana elaborato e praticato dalle Brigate rosse. Non a caso, quando durante il sequestro Moro queste ultime chiesero allo Stato la liberazione dei prigionieri rivoluzionari in cambio della liberazione di Aldo Moro, misero Sante Notarnicola all’inizio dell'elenco dei detenuti politici da liberare: riprova, questa, del ruolo politico riconosciuto a un militante comunista che era stato uno dei principali componenti della “banda Cavallero” ed era, in quel periodo, uno degli esponenti più lucidi e combattivi della rivolta contro il regime detentivo e il carattere totalitario dell’istituzione carceraria.

 

3.Gli imprendibili”

Ben diversa da quella di Luzzatto è l’ottica di Andrea Casazza (pur citato di scorcio in Dolore e furore), il quale nel 2013 pubblica il saggio “Gli imprendibili. Storia della colonna simbolo delle Brigate rosse”. In questo saggio, che va considerato esemplare, viene ricostruita, sulla scorta di una vasta, minuziosa ed articolata documentazione, la lunga e complessa storia delle Brigate rosse genovesi. Genova è infatti la città in cui, all’inizio degli anni Settanta, con la formazione della “banda XXII Ottobre”, collegata con i Gap fondati dall’editore Giangiacomo Feltrinelli, ebbe inizio la storia della lotta armata in Italia. Il clamoroso sequestro di Mario Sossi nel 1974 e l’omicidio del giudice Francesco Coco e dei due uomini della sua scorta nel 1975 furono le azioni compiute dalla colonna genovese delle Brigate rosse: il primo era stato il pubblico ministero nel processo alla “XXII Ottobre”, il secondo si era opposto alla scarcerazione dei militanti della «banda» richiesta dalle Brigate rosse in cambio della liberazione del magistrato sequestrato.

Da quel momento e fino al 28 marzo 1980, data dell’uccisione, compiuta dai carabinieri, di quattro brigatisti sorpresi nel sonno nella base di via Fracchia grazie alle rivelazioni del “pentito” Patrizio Peci, la colonna incarnò il mito dell’imprendibilità. Un periodo di sei anni in cui la formazione brigatista partecipò al rapimento dell’armatore Pietro Costa, attuò quindici “gambizzazioni” di esponenti della Democrazia Cristiana, di dirigenti industriali e del vicedirettore del quotidiano «Il Secolo XIX», e consumò gli omicidi di quattro carabinieri e di un commissario di polizia. Ma ciò che impressionò maggiormente fu l’uccisione di Guido Rossa, operaio e militante del Pci, punito per aver contribuito all’arresto del brigatista Francesco Berardi, sorpreso mentre diffondeva volantini delle Brigate rosse all’interno della fabbrica nella quale entrambi lavoravano.

Nonostante il duro colpo subìto in via Fracchia, nel 1980 la colonna arrivò all’acme della sua forza politica e militare, potendo contare su una settantina di militanti, oltre che su un’ampia rete di simpatizzanti. Con l’arresto fortuito di due militanti minori, alla fine di quello stesso anno, si aprì, a quel punto, un processo di disgregazione. I due arrestati decisero di collaborare con le forze di polizia determinando così la distruzione definitiva della colonna e del suo mito di imprendibilità. Ma questa storia è intrecciata con un’altra, non meno complessa e significativa: l’incriminazione, posta in atto da alcuni collaboratori del generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che nel 1979 portò in carcere una quindicina di militanti dell’estrema sinistra genovese ingiustamente accusati di appartenere alle Brigate rosse. Un processo che crollò dopo dodici anni e che comportò, per quattro vittime di quegli arresti, il tramutarsi delle sentenze di condanna in assoluzioni piene.

 

4. Limitatezza di coscienza e di visuale

Tornando al libro di Luzzatto, è opportuno sottolineare che l’involuzione ideologica che, nel corso del tempo, ha contrassegnato le scelte di carattere tematico e le modalità discorsive dell’autore trova un preciso riscontro anche sul piano dello stile, che è caratterizzato dalla tendenza verso un livello basso-mimetico e da una prosa che oscilla costantemente fra il tono burocratico-referenziale, il tono romanzesco-evocativo e il tono critico-saggistico: una prosa che rivela la sua natura pretenziosa e insieme posticcia nelle note acrimoniose e derogatorie con cui l’autore, animato dal chiaro intento di denigrare, svalutare e banalizzare il significato storico, politico, intellettuale e morale della esperienza della lotta armata in Italia, incornicia, sigla e commenta gli episodi rievocati e i personaggi descritti.

In questo senso, è davvero rivelatrice la prosopografia di Riccardo Dura, visto come prototipo del soggetto marginale e ribelle, tanto affascinato dai “cattivi maestri” del sovversivismo universitario quanto spietato nell’azione politico-militare con cui tratta, convertendole in antagonistiche, le “contraddizioni in seno al popolo”: tale quindi da assurgere, nella visione ad un tempo lombrosiana e deamicisiana dello storico genovese, a simbolo individuale della composizione di classe delle Brigate rosse.

Nel complesso, dunque, la ricostruzione offerta da Luzzatto non fa compiere un passo avanti alla storiografia sulla lotta armata né in termini di approccio né in termini di metodo, nonostante un apparato documentario ponderoso ma anche, come si è notato, unilaterale, ‘giocato’ tra archivi pubblici e privati e fonti orali non sempre controllate né controllabili. Così, la ricostruzione minuziosa, talora pleonastica e talaltra lacunosa, è posta al servizio di una tesi storica il cui carattere predominante è esplicitamente endosistemico e apologetico. A riconoscerlo, d’altronde, è lo stesso autore: costui, nell’‘explicit’ di un libro dedicato alla storia di una formazione rivoluzionaria, non si perita di rendere omaggio al padre, poiché questi, coniugando «la lucidità dell’insider e la lucidità dell’outsider», gli avrebbe insegnato saggiamente, «più che il salto in lungo del rivoluzionario, il passo lento del riformista». È difficile immaginare una definizione più calzante della limitatezza della coscienza ideologica e della visuale storica che sono proprie di un esponente intellettuale della borghesia “di sinistra”.

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Comments

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Eros Barone
Friday, 17 May 2024 10:40
Ripeto quanto ho già scritto in precedenti commenti sullo stesso tema svolti in altre sedi, anche per demarcare la mia posizione da interventi che, distorcendo e mistificando la verità storica, che è semplice, portano acqua al mulino delle forze reazionarie. Il 16 marzo 1978 le Brigate Rosse (non il Kgb, non la Cia, non la P2) uccisero gli uomini della scorta e rapirono Aldo Moro, presidente della Dc e grande regista dell’ingresso del Pci nella maggioranza di governo. Non vi è dubbio che i 55 giorni del sequestro abbiano segnato una svolta nella storia del paese. Da quel momento in poi, la Dc, lacerata dagli scontri di potere interni, non sarà più in grado di svolgere la sua funzione di
partito-Stato; il Pci, capofila del cosiddetto ‘partito della fermezza’, rifiuterà ogni trattativa con le Br e risulterà determinante per il mantenimento della Dc al potere, per il rafforzamento del ruolo repressivo della magistratura e delle forze di polizia e per il blocco della conflittualità sociale; solo il Psi cercherà con Craxi la via di una trattativa, differenziandosi positivamente dalla concezione statolatrica e sacrificale (legge di Saturno) in nome della quale il resto del ceto politico avallerà, come la stessa vittima comprese perfettamente e dichiarò ‘apertis verbis’ nelle sue stesse lettere, la condanna a morte di Aldo Moro, inflitta ed eseguita a causa del rifiuto, opposto dal cosiddetto ‘partito della fermezza’, di riconoscere politicamente le Br; il papa Paolo VI, dal canto suo, lancerà un appello per la liberazione dello statista democristiano agli “uomini delle Brigate Rosse”. Il sequestro e l’uccisione di Moro segnano quindi la vera data periodizzante, che annuncia il passaggio alla ‘seconda Repubblica’ e anticipa l’inizio degli anni Ottanta, il decennio della ‘cultura del riflusso’, dell’affermazione dell’egemonia politica e ideologica di un blocco neoborghese, della ristrutturazione e dello spostamento dei rapporti di forza economici e sociali tra le classi a favore di tale blocco, del compimento del processo di socialdemocratizzazione del Pci, preludio alla sua finale liquidazione, e della neutralizzazione dei movimenti e dei conflitti di classe. L’attacco delle Br al ‘cuore dello Stato’, se da un lato esprime il punto più alto che mai sia stato raggiunto dalla lotta armata, dopo la fine della seconda guerra mondiale, in un paese dell’Occidente capitalistico (laddove il Monte Bianco di illazioni e disquisizioni sugli intrecci con i servizi segreti, con la massoneria e con talune potenze straniere è privo di qualsiasi consistenza e serve soltanto ad occultare questa semplice realtà), segna dall’altro la sconfitta della strategia insurrezionalistica delle Br e l’inizio della loro fine, confermando la giustezza dell’analisi condotta da Marx ed Engels nel “Manifesto”, laddove i fondatori del socialismo scientifico, affermando che “il capitale non è una potenza personale, ma una potenza sociale”, liquidano l’ideologia anarchica del terrorismo. Sennonché le opinioni dominanti identificano la causa di quell'errore in una colpa morale o in una infrazione del codice penale, ossia nell'uso della violenza. In altri termini, non si è voluto vedere che quell'esercizio della violenza è stato un errore di analisi e di valutazione dei fattori politici. È quindi accaduto che la scelta della lotta armata sia stata interpretata come moralmente colpevole, mentre il problema era quello di spiegare perché quella scelta era politicamente errata. Così è successo che un ventennio della vita di tutti (anni Sessanta e Settanta del secolo scorso) è stato ridotto ad una questione di coscienza, anziché di conoscenza e di azione. La conclusione che da tempo è stata tratta e codificata dall'ideologia dominante è quindi la seguente: qualsiasi forza intellettuale e politica che si organizzi come avversaria degli interessi e delle volontà delle classi al potere viene immediatamente denunciata come complice o apologeta del terrorismo; qualsiasi riflessione storica o teorica sul ruolo e sul significato della violenza nella storia umana che non si concluda con la celebrazione e l'esaltazione del regime di democrazia parlamentare quale supremo vertice della umana convivenza (e con la condanna della ricerca di ogni altra via) è riprovata, come accade nel libro untuosamente virtuistico scritto da Sergio Luzzatto, quale opera di corruzione e di perversione. Quella perversione e quella corruzione che, per quanto mi concerne, mi pregio di esercitare, come e quando posso, ormai da sessant'anni, cioè da quando nella vita ho cominciato a sperimentare in prima persona la violenza dei conflitti delle classi.
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Adalberto4
Wednesday, 15 May 2024 21:35
Si va bene, Luzzatto è un amico dei nemici e un nemico degli amici. Ma da qui a dare ai protagonisti delle varie imprese dei lottatori armati la definizione di "formazioni rivoluzionarie" ce ne passa. Ma quali rivoluzionari! Borghesi o proletari che fossero, fu gente che scambiò il proprio malessere e susseguente delirio con la realtà dei fatti. Finendo pure per essere infiltrati da chissà quali forze e servizi nazionali e stranieri. E che affossarono tutto: movimento di classe, prospettive di sviluppo sociale e politico, istanze libertarie ecc ecc per consegnare il paese alla repressione e al definitivo trionfo del sistema. Che nel corso dei decenni successivi e fino ai nostri giorni ha potuto dispiegare, quello sì, la sua geometrica potenza. A spese nostre.
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Paolo Selmi
Tuesday, 14 May 2024 12:17
Carissimo Eros!

Anzi tutto, complimenti per questo lavoro. Non ho letto il libro, ma ho capito perfettamente dove va a parare.

Grazie per questo spaccato di Genova e Milano che non conoscevo.

Soprattutto di Genova, con cui pur lavorandoci tutti i giorni, pur parlando ogni giorno con colleghi genovesi in quell'ambiente un po' ristretto, ma non più di tanto, che gira intorno al porto, sento proprio, percepisco, una ricchezza, una complessità, che non basta andarci un giorno in gita (... ovviamente alla Città dei bambini e all'Acquario! con la bambina che scalpitava... e io che dicevo "fatemi almeno vedere Via del Campo, scusa!"), o lavorarci e basta, sia pur da oltre vent'anni ormai, per capire.

Io poi che per quattro anni ho vissuto a Venezia, ho visto ogni volta che passavo il Ponte della libertà in treno smantellare QUELLA Marghera pezzo pezzo, negli anni in cui peraltro c'era il referendum (comunale) Venezia separata da Mestre SI / NO... e vinsero i no, perché è vero, comunque, sono due facce di una stessa medaglia... intuivo e intuisco cosa c'è ancora dietro quella facciata, per l'appunto, da gita di un giorno.

Un mondo.

E immagino, perché di più non posso fare, come doveva essere quarantacinque anni fa. Girava sulla piattaforma web del maggior gestore telefonico italiano - forse gira ancora adesso! - un documentario sul Concerto della PFM con De Andrè nel 1979, proprio a Genova. Inutile dire che l'ho divorato, fra filmati, testimonianze, eccetera. Un evento di massa, quel concerto. non d'élite. Con operai che ancora oggi, che quel capannone della Fiera di Genova è lì, in totale abbandono, hanno il talloncino e il manifesto staccato da qualche muro.

Grazie mille Eros! E un saluto alla tua Zena!

Un abbraccio!
Paolo
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Eros Barone
Tuesday, 14 May 2024 21:03
Carissimo Paolo, grazie per l’apprezzamento dell’articolo. E’ sempre un piacere comunicare con te e constatare quanto tu sia affascinato da Genova e da ciò che Genova rappresenta, per la nostra comune prospettiva ideale, sia sul piano storico che sul piano simbolico. Genova sta oggi facendo i conti con il livello di imputridimento determinato dal connubio tra la destra e la “falsa sinistra”. Sono però convinto che, facendo leva sulle forze operaie di avanguardia e sulle forze popolari sane che essa esprime, saprà risorgere e rendersi degna delle sue tradizioni migliori. Un forte, fraterno e caloroso abbraccio. Eros
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